martedì, Dicembre 3, 2024
Spagna

Progetto nel progetto, comunità nella comunità – l’estate di Matteo, volontario in Spagna

Partito il 9 febbraio 2018 per Madrid, SpagnaMatteo
Nome: Matteo
Periodo SVE: 9 febbraio 2018 – 8 febbraio 2019 (12 mesi)
Paese di accoglienza: Spagna
Ente di accoglienza: PIC no: 947302389
Organizzazione: Asociacion Residui Teatro
Primo contatto con l’ufficio EDIC: 17 agosto 2015

———————————–
Matteo è partito ad inizio febbraio 2018 grazie al progetto SVE “ACTIV-ARTE”.
Matteo svolgerà il suo progetto SVE di 12 mesi assieme ad altri due volontari europei. Il loro compito sarà quello di supportare le attività portate avanti dall’associazione in particolare attività di educazione artistica, utilizzando le arti e nello specifico il teatro, come strumento educativo per la trasformazione personale e comunitaria. Matteo, assieme agli altri due volontari, parteciperanno alle attività della comunità focalizzate a sensibilizzare la cittadinanza su tematiche quali: inclusione, diritti umani, diritti dei bambini, diritti delle persone con diverse abilità.
Buon Servizio Volontario Europeo Matteo

——————————-
Report I – marzo 2018
Il mio SVE inizia in realtà in luglio, un luglio molto afoso, monotono e senza troppe aspettative che cerchi di trascorre in qualche angolo d’ombra della tua città. Per la precisione inizia con una chiamata: numero straniero, prefisso mai visto, chi sarà? Mi risponde una voce italiana, ma parla di un’associazione spagnola. Per la precisione parla di un’associazione spagnola a cui avevo mandato la motivation letter per lo SVE. Per la precisione ancora: sono senza parole e devo improvvisare un’intervista telefonica in 10-15 minuti. Cerco di essere me stesso, ma è una frase fatta e la verità è che non sai minimamente cosa stai dicendo, perché la ragione parla una lingua e la tua voce un’altra. Ti morderesti la lingua per quello che dici, vorresti tornare indietro ed essere più convincente ma intanto la conversazione va avanti, un po’ in italiano e un po’ in inglese. Ho più caldo che parole, ma cerco di concentrarmi e poi e poi… e poi sento il fatidico “va bene, siamo interessati a te e ti vogliamo per questo progetto”.
Ecco dove nasce il mio Sve: tutto il periodo di attesa che va da quella chiamata al volo aereo per Madrid è un miscuglio di narrazioni che in realtà restano indistinte. Ed è giusto così. Sono narrazioni di due tipi: prepararsi per andare; prepararsi per salutare.
Prepararsi per andare non è poi tanto difficile. L’attesa del via libera è l’unico nemico fastidioso, ma anche lui prima o poi si arrende e ti lascia andare per vivere un anno come non l’avresti mai pensato. Inizia la trafila di cose che dovresti fare ma non fai bene (studiare già la lingua, informarti sulla città e sullo stato, dare una letta a tutte le carte, controllare se sei in regola con i documenti), e non perché non sei in grado, ma semplicemente perché la tua testa oscilla continuamente su mille pensieri e mille emozioni che ancora non riesci a esprimere. Per la precisione ti senti con un piede già partito e con l’altro ancora a casa.
Già, casa. La parte più difficile sarà questa: i grandi saluti, gli arrivederci, forse gli addii. Dipenderà da te. Per la precisione dipenderà molto da te. Puoi fare una festa ciclopica o, come nel mio caso, puoi incontrare faccia a faccia ogni singola persona che senti speciale. Ammetto che non sono mai andato tanto in caffè, bar, ristoranti e stazioni ferroviarie come in questo periodo solo per questi commiati, ma… ne valeva la pena e lo rifarei. Perché capisci tante cose: in queste persone rivedi un po’ di te, quello che avresti potuto essere, quello che invece non vorresti essere, quello che ci trattiene e quello che invece ci farà tornare a casa, in un modo o nell’altro.
E poi c’è un altro commiato: quello con la città. La mia Trieste. Ci siamo lasciati veramente davanti al mare, prima d’imboccare la stazione. Era giusto così, perché sentivo che eravamo come due innamorati che hanno bisogno di una pausa. Quale sarà il nostro futuro: insieme o distanti? Ho un anno di tempo per scoprirlo.
Nel frattempo è arrivata Madrid. Sì, proprio Madrid. Ma questa è un’altra storia e la racconterò la prossima volta. È arrivata anche una nuova casa da condividere con coinquilini favolosi – per la precisione una polacca, una messicana ormai tedesca, un francese e una pugliese. Ma questa è un’altra storia. È arrivato anche il fantastico training di formazione in Andalusia che mi ha fatto conoscere altri volontari da tutta Europa (ma gli italiani non mancano mai e sono sempre la minoranza più corposa) e attività come il flamenco. Ma anche questa è un’altra storia. E sono narrazioni che racconterò la prossima volta.
La storia che vi ho raccontato oggi non può ospitarle perché è solo, semplicemente la storia dell’inizio. La storia di un nuovo inizio.

——————–
Report II – aprile 2018
Un’altra narrazione, come promesso.
Quando l’aereo planò e atterrai all’aeroporto di Barajas, non trovai nessuno ad accogliermi. Niente paura, anzi: lo sapevo già e in fondo mi andava benissimo, perché così avrei potuto prendermi un po’ di tempo per famigliarizzare con la mia nuova città. E non una città qualsiasi, bensì Madrid.
Passare da Trieste a Madrid sarà un duro colpo mi ero detto. Invece mi sbagliavo e moltissimo. Quando a passo di trolley ho cominciato a inforcare le ampie strade, i vialoni, le fontane, i parchi e i negozi del mio futuro quartiere, sapevo di trovarmi già in una città che ti prende tra le braccia e t’invita a guardarla.
Perché non farlo? Con trolley, zaino e mille altre cose rimpinzate nel giubbotto per non superare le dimensioni della valigia consentite all’aeroporto… era un po’ dura muoversi per molto tempo e comunque non volevo fare tardi all’appuntamento con l’associazione.
Ricordo quel primo giorno come fosse ieri. In realtà sono passati due mesi e tre giorni, ma se c’è una cosa che ho imparato dall’Evs, e sull’Evs, è proprio l’anomalia nella percezione del tempo. Su questo ritornerò nel prossimo report, promesso. Ma è giusto parlare di qualcos’altro, di quel primo incontro e della mia ingenuità. Essendo il mio ente di accoglienza un’associazione teatrale, ero convinto che avesse un teatro tutto per sé, così perlustravo Calle de Ercilla con parecchi dubbi, perché vedevo solo edifici che non potevano corrispondere alla descrizione. Mi sarò sbagliato? Inoltre il numero civico corrispondeva a tantissimi altri locali, uno vicino all’altro. Alla fine noto la scritta “Residui teatro” e mi ci ficco dentro. Di teatro con platea e gallerie neanche l’ombra, ma non perché non facessero teatro, anzi: in pochissimi minuti mi trovai tramortito da un motore già in piena azione; tutti stavano organizzando uno spettacolo chiamato “Il Banquete” (a cui avrei partecipato anch’io), davanti a una tavola piena di lavoro. C’era autorevolezza ma non autorità e la mia referente mi sorrideva con in braccio la sua figlioletta di tredici mesi, che tra l’altro stava allattando. Capii che proprio la presenza di quella bambina identificava quel posto, arricciandolo più o meno così: da una parte l’aura genitoriale ma comunque disciplinata e artistica dei due responsabili; dall’altra l’indaffarata azione degli altri volontari con proposte di scena e organizzative, ma anche il loro assumersi il ruolo di baby sitter temporaneo quando la bambina voleva intervistarli. Non c’era niente di formale, ma era proprio questo il Dna dell’Evs che avrei subito dovuto imparare: gestire un’avventura collettiva di educazione non formale.
Visitai brevemente le altre sale, accorgendomi che in realtà le attività erano molte e non solamente teatrali: yoga, danza capoeira, workshop di danza, corsi di recitazione. Ma per quel giorno ero già pieno di cose e d’informazioni e di viaggi, fisici e mentali. Ero contento di aver già conosciuto due volontarie che poi sarebbero diventate due pilastri del mio volontariato: un’attrice pugliese, sempre attiva quanto sensibile; una costume designer di Varsavia tanto brava quanto determinata e profonda.
Quella giornata poteva anche finire lì. Potrebbe cominciare la storia del mio nuovo appartamento, ma anche questa è un’altra storia. Io ricordo solo che, al contrario del vecchio di Hemingway del Vecchio e il mare, che si addormentava sognando ai leoni, io chiusi gli occhi a fatica, come sempre mi capita in un posto sconosciuto; però quando lo feci, sognai anch’io qualcosa: non erano i leoni, ma gli affreschi di Plaza Mayor con la loro barocca teatralità, che per me significava passato e presente; sognai il teatro.

——————
Report III – maggio 2018

Sono trascorsi tre mesi, eppure sembrano passati tre anni o tre giorni, a seconda dei punti di vista. Tre anni perché succedono talmente tante cose che il tempo corre alla sua velocità, una velocità che ti supera e ti spiazza e che ti fa navigare in acque che non conoscevi e che nemmeno chi ti sta accanto ed è rimasto a casa può conoscere. D’altro canto sembrano anche passati solo tre giorni, perché la velocità rende ogni giorno talmente diverso da accorparli in una cosa sola. Non so se mi spiego, ma ricordi esattamente il giorno in cui parti e poi tutti gli altri sono talmente speciali da formare un unico giorno.
E allora perché ricordarli come tre giorni e non come due? Perché al giorno della partenza e all’unico grande giorno speciale va aggiunto anche un altro evento importante: la formazione.
Che cos’è la formazione? Dopotutto ne farete una pre-partenza anche con Mattia e gli altri amici dell’Europe Direct prima di partire. È vero. Tuttavia non è la sola formazione che farete: ce n’è una a poche settimane dall’arrivo nel paese che vi ospita e una a metà del vostro percorso.
Io per il momento ho vissuto solo la prima delle due ed è stata un’esperienza irripetibile. Perché? Perché per cinque giorni potrete stare in un’altra città con decine di altri volontari da conoscere e imparerete molte nozioni psicologiche, europee e linguistiche che vi saranno utili. Ma è la cosa più lontana possibile dall’apprendimento formale e quindi non morirete di noia. Preparatevi a giocare, persino a ritornare bambini, ma anche abituatevi a parlare del vostro paese e conoscerne dei nuovi. E preparativi anche a capire meglio molti stereotipi da evitare. Nel mio caso ho imparato molto sulla Spagna e sull’Andalusia, perché la mia formazione era nella città di Huelva: avrete la possibilità di visitare posti che non avreste mai considerato, come Palos da dove partì Colombo e salire anche sulle sue tre caravelle (anche se ovviamente sono delle ricostruzioni); oppure avrete la possibilità di seguire un workshop di flamenco e di assaggiare la sangria nella stessa sera, ballando e cantando.
Non so quale sarà la vostra possibilità, perché sarà sicuramente diversa, ma è proprio la diversità a trionfare in questa formazione. La diversità che si esprime da ogni singolo partecipante con la sua storia, la sua cultura, la sua curiosità verso di voi e persino… con il suo modo di salutare. Perché scoprirete che ogni nazione europea ha il suo modo di salutare e salutarsi, e ovviamente che ha i suoi stereotipi da affrontare. Come noi, anche se a volte non sono proprio stereotipi. Ricordo per esempio che insieme a degli amici italiani dovevo sfatare alcuni stereotipi che ci coinvolgono e il primo fu: “Ragazzi, il primo stereotipo che voglio smontare è che non mangiamo pasta ogni giorno. Sono stufo di sentirmelo dire!”. Non l’avessi detto: davanti a me stavano quattro facce sbigottite che alternativamente mi dissero, anche senza aprire bocca, “In realtà io mangio pasta per pranzo, per cena e, se potessi, per colazione”. Sono momenti come questi, per quanto infinitesimali, a farti sentire più europeo e più italiano allo stesso tempo.
Vi prego di non sottovalutare questa settimana della formazione: salverete molti contatti, molto probabilmente rivedrete molti di quei visi e vi ospiterete a vicenda, ma soprattutto potrete trovare qualcosa di non sostituibile: giovani anime come le vostre con tanta energia e dubbi e voglia di mettersi in gioco; qualcuno che vi assomiglia e con cui creare una piccola, comune Europa. Questa semplice e impegnativa settimana, per quanto composta di cinque giorni, basterà per dare un nuovo senso al vostro volontariato. O almeno così è stato per me, perché persino nella galleria dei tanti “normali” giorni straordinari questo momento non può essere ricordato che come un grande secondo giorno.

——————
Report IV settembre 2018
Non ci aggiorniamo da un po’. Colpa dell’estate e di tante novità che si è portata via. Estate però non significa solo vacanza per un volontario: molti ritornano a casa per qualche settimana, altri, come me, scelgono di girare il paese dove stanno facendo il volontariato. Io ho scelto d’immergermi nelle terre andaluse per scoprire la Spagna più antica e forse la più autentica, dove l’identità creata da cristiani, musulmani, sefarditi e gitani forma un nodo ancora indistricabile. Ma questa è un’altra storia. Oggi volevo parlare di un progetto nel progetto che sicuramente è l’attività più bella che mi sia capitata nel mio volontariato.
Dal 2 al 14 luglio sono infatti tornato in Italia con la mia associazione, che è una compagnia di teatro, per un progetto chiamato Bridges. L’idea, fin dal nome, è quella di creare dei ponti tra l’arte e la comunità: è esattamente quello che stavo cercando prima d’iniziare il mio volontariato e a posteriori posso dire che Bridges da solo basterebbe per dare un senso a questi mesi spagnoli. La cosa assurda è che Bridges si è fatto in Italia e non in Spagna, pertanto sembra un paradosso.
Bisogna tornare a casa per capire che si può fare il progetto più importante del tuo volontariato?
A quanto pare sì. Anche per questo motivo Bridges è stato un modo per riconnettermi all’Italia che più amo e che crede talmente tanto nelle sue passioni da intestardirsi e sfidare la crisi, la mancanza di denaro, la tradizione. Siamo stati a Vanzago, una bella cittadina non lontana da Milano e famosa per la sua riserva del WWF, e ci siamo sentiti accolti sia dagli abitanti sia da un gruppo di giovanissimi che si sono rimboccati maniche e doppie maniche pur di farci sentire bene. Chi eravamo? Una compagnia spagnoli e tanti attori, chi spagnolo, chi italiano, chi sudamericano (Equador, Brasile, Argentina), chi ucraino e chi danese. Sembra una barzelletta a raccontarla così, ma non lo fu, anzi. Il progetto si articolava in due settimane e prevedeva un training per gli attori e poi la realizzazione di uno spettacolo con e per la comunità. È costato tanta fatica, ritmi intensi (la mia associazione li chiama, ironicamente, da “guerriglia”), ma ne valeva la pena: non solo gli attori, tra di loro, hanno sviluppato una grande chimica, fino a diventare una comunità nella comunità, ma anche la cittadina si è trasformata in diversi modi e ha interagito con noi: così, il centro anziani è diventato una seconda casa; la riserva del WWF ha ospitato cerimonie del tè giapponesi e l’ultimo giorno lo spettacolo ha coinvolto tutte le associazioni, dai calciatori alla banda. Più che uno spettacolo, è stata una festa, e come tale, a prescindere dall’arte, voglio ricordarla.
E voglio ricordare anche l’immagine di tanti attori in giro per le strade deserte di una cittadina lombarda in pieno luglio: tante biciclette straniere che all’inizio venivano additate per la sorpresa, ma che infine già parevano un paesaggio naturale per tutti. E allora la domanda: siamo veramente così diversi? Forse con progetti come questo possiamo capire come la diversità sia l’inizio e non la fine di qualcosa.