sabato, Dicembre 21, 2024
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Chiara: “Ho notato quanto mi stia adattando alle culture degli altri.” Report di febbraio e marzo 2020

Partita il 1° ottobre 2019 per Örnsköldsvik (Svezia)
Nome: Chiara
Periodo SVE: dal 01/10/19 al 30/06/2020
Paese di accoglienza: Svezia
Ente di accoglienza: Örnsköldsvik kommun (Svezia)
PIC number: PIC no: 913114157

Ad inizio ottobre Chiara è partita per il suo volontariato di 9 mesi in Svezia presso Örnsköldsvik kommun, il dipartimento dell’integrazione che porta avanti attività rivolte principalmente ai richiedenti asilo.
Chiara supporterà il suo ente di accoglienza attraverso il supporto alle iniziative rivolte ai richiedenti asilo o per i nuovi residenti in Svezia, l’organizzazione di attività multiculturali e iniziative non formali come la presentazione del proprio paese, cultura, tradizioni, realizzazione di giochi, eventi e feste per integrare i nuovi svedesi nella comunità locale e lo sviluppo di piccoli progetti per favorire l’interazione tra i migranti e la popolazione locale. Come tutti i volontari partiti con il Corpo Europeo di Solidarietà, anche Chiara avrà anche l’opportunità di proporre e attuare attività basate sulle sue capacità e sui suoi interessi.

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Report I – ottobre 2019
E’ il 19 ottobre. Sono qui da 19 giorni e mi pare di essere qui da tre mesi.
L’accoglienza è stata fantastica. Due anni fa avevo visitato Malmö, a sud della Svezia, e mi aveva preoccupato un po’ il carattere degli svedesi, freddo e distaccato. Qui non è assolutamente così, tutti sono disponibili e generosi. Non soltanto le persone del mio team, ma anche la gente di Övik (chiamano così la città per abbreviare Örnsköldsvik). Tutti parlano l’inglese, chi più chi meno, ma non ho mai avuto problemi di comunicazione per ora.
Ho un appartamento mio (studio, quindi stanza singola con cucina e letto, più bagno), e le colleghe del mio team mi hanno fatto trovare formaggio e latte vegano in frigo, e banane e tè al mio arrivo.
Hanno mostrato la città a me e all’altro volontario, ci hanno persino portato in macchina a vedere i principali supermercati (questa è una zona industriale quindi bisogna usare la macchina per spostarsi perché gli autobus non arrivano dappertutto).
Il dipartimento dell’integrazione dove lavoro, lavora appunto per cercare di integrare i richiedenti asilo nella società svedese. Ci sono quelli che loro chiamano “meeting places” cioé posti d’incontro, che sono dei posti dove si può giocare (a biliardo, a ping-pong, con la playstation, giochi da tavolo…), si può parlare, si può prendere uno snack o qualcosa da bere. Sono aperti sia a svedesi che a stranieri. Di solito ci vanno gli stranieri che hanno già ottenuto un visto per rimanere, mentre quelli che lo stanno ancora aspettando vivono in dei paesi piccoli fuori città, e lì la situazione è peggiore, perché non c’è nulla da fare e loro sono in attesa di sapere se potranno restare o dovranno tornarsene a casa, quindi non è facile. Uno dei nostri compiti come volontari sarà contribuire con idee per intrattenere e coinvolgere le persone di questi paesi, così che si sentano meno tristi e frustrati, specialmente donne e bambini.
Lavoriamo anche con la Chiesa di Svezia due giorni a settimana. C’è un språkcafe (credo si traduca come caffè delle lingue), dove gli stranieri vanno e possono incontrare altre persone e socializzare.
Un giorno a settimana aiutiamo anche la chiesa a dar da mangiare a chi non ha molto denaro per permettersi di comprare cibo (la Svezia è molto cara), e possono essere sia stranieri che svedesi.
Dobbiamo dividere in maniera più uguale possibile in delle borse il cibo che sta per scadere o è scaduto da un giorno che viene donato alla chiesa da un supermercato con cui hanno un accordo. E’ il lavoro che mi piace di più, perché c’è un risultato tangibile e immediato: si riempono le borse, si
danno le borse alle persone e le persone hanno di che mangiare. Mentre con i posti d’incontro non si sa se si è fatto una differenza nella giornata di queste persone, se se ne torneranno a casa più felici.
Forse è un risultato più a lungo termine e devo imparare a pazientare. Io in questi centri mi trovo meglio con i bambini, perché li faccio disegnare o gioco un po’ con i più grandi.
Sto imparando molte cose della cultura svedese: amano fare “fika”, che è la loro pausa caffé. Ne hanno due al giorno, una la mattina e una al pomeriggio. E’ un evento sociale, quindi anche se non si beve niente (il che è raro) si fa fika lo stesso per socializzare. Non è educato rifiutare, se qualcuno offre di fare fika fra amici o colleghi. Di solito bevono caffé (bevono tantissimo caffé) e mangiano qualcosa vicino (un dolcetto), o anche niente. Io bevo tè, perché il caffé non mi piace, e va bene lo stesso. Pranzano fra le 11.30 e le 12.30 (se si pranza alle 13 è tardi) e cenano fra le 17-17.30 e le 18.30. Amano molto stare fuori nella natura. Ogni giorno escono, almeno per un’ora, anche se piove. Il fine settimana sono sempre nei boschi o in qualche altro posto naturale. Övik è famosa per gli sport, specialmente hockey sul ghiaccio. Qui tutti praticano uno sport e c’è un’infinità di opzioni fra cui scegliere. Abbiamo una free membership per la piscina comunale, che è enorme e molto ben equipaggiata.
Mi accorgo anche di come abbiano quasi l’ossessione di fare sempre qualcosa. Il primo sabato dopo essere arrivati siamo andati ad arrampicare con dei capi scout del posto, poi abbiamo dormito nel bosco. Il secondo siamo andati a funghi con una delle cape del team, i suoi figli e un’altra collega.
Ci propongono sempre cose da fare durante il fine settimana, anche se uno vorrebbe solo riposarsi un po’ se i giorni prima sono stati impegnativi.
Lavorano anche molto. Lo noto anche nel dipartimento di integrazione e di cultura, lavorano tanto e poi il fine settimana fanno quello che non fanno durante la settimana. Lavorano perché qui permettersi una bella casa o una bella macchina o una bella barca è molto ambito. Per questo, però, una famiglia su due si separa (a quanto mi è stato detto da due colleghe) e i giovani adolescenti svedesi spesso sono allo sbando.
La Svezia però ha anche la minor disparità di genere d’Europa. C’è una maggioranza di avvocati femmine, una maggioranza di dentisti femmine e per i medici è 50/50. C’è anche minor differenza di paghe, anche se c’è comunque ancora. Investono molto sui giovani e sui bambini, perché dicono che i bambini sono il futuro e hanno ragione. Se tagliano alberi nei boschi per legname, ne piantano altri tre per ogni albero tagliato. Sono lungimiranti, per certe cose.
Ho cominciato lo scorso lunedì il corso di svedese e ne sono molto felice. Sto imparando in fretta perché sono motivata dal voler comunicare nella loro lingua con loro, e anche perché molti immigrati che sono qui da un po’ parlano o la loro lingua madre (che di solito è arabo, afghano o qualche volta persiano), o lo svedese, e poco o niente inglese.
Le giornate si accorciano a vista d’occhio. Per ora, il buio arriva alle 17.20. Da novembre a febbraio, dicono, c’è luce dalle 9 di mattina alle 14. Staremo a vedere.
Mi piace qui. Spero di poter essere ancora più d’aiuto.

Report II – novembre 2019
Le giornate qui sono così piene che davvero mi sembra di aver passato qui già tre mesi.
A fine ottobre siamo andati a Stoccolma per l’on-arrival training. E’ stata una bella esperienza ed è stata una buona occasione per incontrare altri volontari europei che lavorano in Svezia al momento.
Ho fatto un paio di amici. Abbiamo fatto degli esercizi che si basavano sulla cooperazione che sono stati molto interessanti e anche se sul momento nessuno dei presenti capiva il perché di tali esercizi, dato che molto probabilmente non ci saremmo più rivisti fra di noi, poi ho capito che il loro scopo era farci riflettere, scambiare opinioni, costruire una specie di rete, farci crescere. Ha funzionato.
Ciò che trovo un tema ricorrente in questo ultimo periodo durante il mio lavoro e il mio studio è quanto siamo diversi, e allo stesso tempo quanto non lo siamo affatto.
Mi spiego: qui a Örnsköldsvik e nei paesi vicini ci sono tante nazionalità diverse. Durante le attività che facciamo per lavoro e nella mia classe per il corso di svedese che seguo, penso di aver conosciuto afghani, thailandesi, kenioti, libanesi, siriani, somali, eritrei, cinesi, iracheni, iraniani, finlandesi, più ovviamente gli svedesi e i due volontari che lavorano con me, un greco e una francese e credo non sia una lista completa tutte le nazionalità che vivono qui. Non ho mai conosciuto così tante persone provenienti da diverse culture in un così breve lasso di tempo e ogni giorno mi metto a confronto con modi di fare, di parlare, di pregare, di cucinare, di vivere diversi dal mio in maniera più o meno palese. Eppure è così speciale rendersi conto che per quanto diversi siano i nostri stili di vita, in fondo, la nostra essenza di esseri umani è sempre la stessa. Ridiamo per le stesse cose, piangiamo per e con gli altri per dolori che magari non ci riguardano nemmeno, ci aiutiamo a vicenda se ci vediamo in difficoltà, indipendentemente dal colore della nostra pelle o da ciò in cui crediamo. Credo che questo posto sia speciale perché ci sono molte nazionalità diverse che vengono da realtà diverse, più o meno difficili, ma c’è una solidarietà taciuta, il supportarsi a vicenda con i mezzi che ognuno ha per aiutare. Poi ovviamente ci sono delle eccezioni, c’è chi è più schivo o più chiuso in se stesso, e va bene così. Ma il sentimento generale che permea la mia realtà attualmente parrebbe essere questo e sono felice di rendermene conto. Credo sia anche dovuto al fatto che molti qui hanno attraversato e ancora attraversano parecchie difficoltà, quindi sanno cosa vuol dire avere dei problemi e di conseguenza viene loro naturale aiutare. Inoltre, molte di queste culture hanno intrinseco in loro il concetto di famiglia, di unità, di fare fronte alle difficoltà insieme, cosa che manca un po’ agli svedesi che sono più individualisti come popolo. I colleghi del mio team sono una bellissima eccezione, ma penso sia perché tutti hanno viaggiato, sono giornalmente a contatto con persone provenienti da diverse realtà e hanno molti amici di diverse etnie, quindi sono internazionali anche loro.
Qui il breve autunno ha lasciato presto spazio all’inverno. Ha già nevicato un paio di volte e i boschi circostanti sono bellissimi quando sono imbiancati.
Fa buio attorno alle quattro, ora, e il sole si alza quasi alle otto di mattina. Presto, dicono, ci sarà luce soltanto dalle nove o dieci di mattina alle due di pomeriggio. Per molti stranieri qui l’inverno è sempre la parte peggiore, anche se vivono qua da anni, perché vengono da paesi pieni di sole e caldo, e il buio e il freddo può nuocere al loro umore. Per questo le vendite di vitamina D durante questa stagione arrivano alle stelle.
Per farci provare una parte fondamentale della cultura svedese, qualcuno all’ufficio ci ha rimediato tre biglietti per una partita di hockey sul ghiaccio, che qui in città è molto popolare. Örnsköldsvik ha degli giocatori e una squadra di fama internazionale, apparentemente, che si chiama Modo Hockey. I biglietti erano abbastanza costosi. Per fortuna i dipendenti del comune hanno un certo numero di biglietti gratis all’anno per le partite, quindi nessuno ha speso tutti quei soldi per noi.
La partita è stata divertente. Siamo andati a vederla non sapendo cosa aspettarci, perché era la nostra prima volta e non conoscevamo bene né lo sport né le regole, ma siamo usciti alla fine senza voce perché ci siamo lasciati prendere dall’euforia generale e abbiamo tifato anche noi come se fossimo tifosi accaniti della squadra da decenni. Ancora non ricordo i nomi dei giocatori!
L’hockey sul ghiaccio qui è un po’ come il calcio in Italia. Allo stadio c’erano 7000 persone, tutti i biglietti erano stati venduti, e se si conta che più o meno 2000 venivano da fuori per tifare la squadra avversaria, 5000 erano di qua, Örnsköldsvik. La città ha più o meno 50000 abitanti in totale e questo vuol dire che una persona su dieci era a vedere la partita ieri. C’erano molte grida, molti cori, la gente saltava per tifare la propria squadra e sventolava bandiere e sciarpe, ma nessuno si è accapigliato, tranne i giocatori. Anche nel tifo più sfrenato mancava comunque la vena fanatica e violenta che a volte si vede in Italia per quanto riguarda il calcio per esempio.
Sto imparando lo svedese più in fretta che posso, così da poter comunicare con le mamme e i bambini che vengono nei “meeting places” e a fare altre attività, perché spesso sanno solo lo svedese e la loro lingua madre, che è arabo o afgano perlopiù.
I bambini ora mi riconoscono e mi chiedono di giocare o disegnare con loro. E’ facile parlarci perché lo svedese che usano è molto basico, quindi mi capiscono e io capisco loro, ma è una bella differenza da prima.
A Björna, un paese a 30km da qui dove vivono dei richiedenti asilo, ogni lunedì accompagno una collega a fare un corso di nuoto per donne. Lei è un’insegnante di nuoto certificata ed è libanese, quindi può comunicare in arabo con loro, mentre io ci parlo in svedese. La prima volta che ci sono andata mi sono resa conto di quanto speciale fosse. Molte delle donne (arabe), non sanno nuotare, quindi devono usare braccioli o tavolette galleggianti. Alcune vengono in piscina con i costumi interi e dei pantaloncini, altre con tute lunghe totalmente coprenti, ma senza veli. Il corso si fa dopo che la piscina ha chiuso, così hanno un po’ di privacy e si sentono tranquille. E’ bellissimo vederle nuotare. Ridono come bambine, si impegnano molto per imparare, giocano, scherzano e ti sorridono un po’ timide quando sbagliano qualcosa. Mi sento onorata perché posso essere presente a queste cose. Sono donne che normalmente vedo totalmente coperte in città, al di fuori di mani e viso. In piscina sembrano persone diverse. La mia collega dice che è utile per loro sia per fare movimento, che per ridere un po’ e dimenticare la loro situazione. Ho saputo dopo la prima lezione che due delle ragazze più giovani che sono venute, già sposate e con figli e che hanno riso a crepapelle saranno a breve rimandate nei loro paesi perché è stato negato loro il visto.
A volte sento come di non essere abbastanza d’aiuto, come se potessi fare di più, ma puntualmente qualcuno in un modo o nell’altro mi ricorda che a volte, se non si può fare altro, basta l’essere presenti, basta una parola gentile o un sorriso per cambiare qualcosa. Io sono abituata a pensare ai
cambiamenti come qualcosa di drastico, di grande portata e immediato, mentre qui mi rendo sempre più conto di come spesso i cambiamenti siano lenti, a piccoli passi e a lungo termine. Bisogna avere pazienza.
Dato che non è una città piccola, spesso mi capita di vedere in giro amici o persone che incontro mentre lavoro o faccio altre attività, e ci si saluta in maniera genuina. E’ bello.
Ho fatto degli amici anche nella mia classe di svedese: due donne thailandesi, una ragazza keniota e un ragazzo libanese. Siamo andati a mangiare a casa di una delle due thailandesi e venerdì, che era la fine del corso per principianti prima che venissimo smistati in classi diverse in base al nostro livello di svedese e capacità di apprendimento, abbiamo fatto un banchetto multietnico con anche le nostre due professoresse, quindi ho mangiato in abbondanza cibi libanesi, somali (perché la keniota ha anche un po’ di cultura somala) e thailandesi. Rimarremo in contatto, perché siamo diventati amici.
Un’altra cosa che mi ha colpito, riguardo la cultura svedese, è il fatto che gli svedesi sono molto tradizionalisti e al tempo stesso molto moderni, il che può sembrare una contraddizione. Ad esempio: il governo investe molto sui giovani, sulla prevenzione della criminalità fra i giovani, sull’educazione e le tasse sono relativamente alte (in base al reddito) ma poi ci sono ottimi servizi.Si potrebbe dedurre che hanno a cuore il bene della comunità, e che il senso di comunità è molto diffuso. Non è così. Come ho detto, sono estremamente individualisti ed è anche uno dei motivi per cui l’integrazione degli stranieri qui nella società non è molto facile. Non lo fanno per cattiveria, ma perché non sono abituati a conoscere nuove persone e ad aprirsi.
Oppure: ci si sposa e si fanno figli molto presto, attorno ai 20-22 anni se non si va all’università, sennò attorno ai 25-26. D’altra parte, però, l’aborto è legale e supportato anche dalla Chiesa di Svezia, come anche i matrimoni dello stesso sesso e l’adozione per coppie dello stesso sesso. Hanno perfino aggiunto nei pronomi il pronome “hen” (invece “han” è “lui” e “hon” è “lei”), che si può utilizzare quando si parla di qualcuno di cui non si conosce bene il genere (per esempio nei casi delle persone transgender), per non rischiare di sbagliare quando si parla o ci si rivolge a loro.
Un altro esempio tradizionalista è che sono una monarchia, anche se il re non ha assolutamente alcuna funzione se non quella cerimoniale. Non ha potere decisionale, non può fare nulla, se non presenziare a diversi eventi. Tutte le decisioni sono prese dal parlamento. Eppure pagano parecchie tasse per supportare la famiglia reale, a cui sono molto legati. Lo trovo buffo.
Il Natale non è ancora molto vicino, ma qui pare lo sia. Anche oggi nevica e quando la neve cade c’è sempre silenzio.
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Report III – gennaio 2020
A volte è difficile. E’ difficile magari per via delle persone che ti stanno intorno, che possono avere i loro problemi e il loro cattivo umore ti influenza. E’ difficile (era) per via della barriera linguistica che non mi permetteva di aiutare quando volevo. Può essere difficile perché hai dormito poco la notte prima, ed è freddo e fa buio alle due di pomeriggio. Magari è difficile perché un’idea che hai è nel limbo del “forse, vediamo come vanno le cose” o del “non abbiamo soldi, dobbiamo trovare un altro modo per attuarla se vuoi portarla avanti”, ed è frustrante, perché vorresti aiutare tramite le tue idee, ma devi lavorare più del normale per farlo.
Poi però succedono piccole cose inaspettate che addolciscono una giornata stancante o faticosa. Un ammiratore inaspettato: un bambino siriano di otto anni che si rifiuta di giocare con tutti tranne che con me, che dopo essere andato via con suo padre ritorna soltanto per dire “ho dimenticato una cosa”, e quando gli si chiede cos’ha dimenticato dice “di dire ciao” e mi abbraccia (la sua testa mi arriva appena all’ombelico).
La preoccupazione genuina di uno degli uomini che lavorano un piccolo bar che bisogna passare per andare all’ufficio dove incontriamo le nostre supervisor. Dopo appena un paio di parole scambiate ha capito chi siamo e ogni volta ora ci chiede come stiamo. E’ particolarmente preoccupato per me, per qualche motivo, perché in questo periodo dormo male e dice che si vede che sono stanca. Oggi sono ritornata dal lavoro e mi ha chiesto se avevo mangiato. Gli ho detto di no, ma stavo andando a casa quindi avrei potuto mangiare lì. Mi ha detto di aspettare ed è ritornato con una pastina in un sacchetto di carta. Gli ho chiesto quanto gli dovevo e mi ha risposto “Non fare così, su. Va’ a casa.”.
Sostenere una conversazione in svedese, capire ed essere capiti, specialmente con persone con cui non si parlava da un po’, e vedere la sorpresa e il piacere nei loro occhi seguito dall’immancabile complimento per come parlo. Non la trovo una cosa vanesia, ma più uno sprone per cercare di migliorare ancora, così che io possa capire di più ed esprimermi meglio.
Ho cominciato a guidare una delle macchine del comune, assieme ad un uomo iracheno con cui vado in uno dei villaggi dove c’è un café una volta alla settimana dove i richiedenti asilo possono avere waffle gratis, giocare a giochi da tavolo, tè, caffè e parlare. Sono 70km andata e ritorno, a volte con neve. Lui parla tutto il tragitto e mi corregge se faccio cose da italiana alla guida, perché in Svezia sono molto rigidi e hanno molte più regole. Quando torniamo in città e lui prende la sua macchina mi accompagna sempre a casa, anche se potrebbe non farlo perché potrei arrivarci a piedi.
Si porta sempre dietro un sacchetto di plastica pieno di tè, che sono tre tè mischiati insieme, e li bolle ovunque trovi una cucina mentre lavoriamo. Me ne offre sempre un bicchiere.
Al caffè del villaggio dove andiamo quando guido ci sono sempre le solite persone, quindi si impara a conoscerle. Il gioco più giocato è Sequence, un gioco di carte e pedine il cui scopo è avere cinque pedine dello stesso colore in fila di seguito per fare un punto. Si gioca a squadre, di solito duecontro due. Il campione indiscusso è un uomo massiccio di origini arabe di cui non so bene né la provenienza né il nome, che apparentemente ha una silenziosa e burbera ammirazione nei miei confronti perché gioco veloce e in maniera furba. L’altra campionessa è una donna svedese ottantenne che mangia waffles tra un turno e l’altro. Sono sempre una coppia vincente. Durante la partita risuonano gli “yalla!” dell’uomo (“yalla” in arabo vuol dire “su, dai, forza”), perché gioca veloce e pensa in anticipo. Alla signora svedese piace pensare, ragion per cui si becca un sacco di “yalla” e risponde spesso con “cosa mi dici yalla, non ho carte buone” oppure “yalla niente, sto pensando”.
La collega che ci invita a sorpresa a casa sua mentre ritorniamo dal lavoro alle otto di sera e ci dà da mangiare cibo libanese fatto in casa come non ne ho mai mangiato di così buono. Si mangia con le mani, avidi, poi dopo cena c’è il tè libanese fatto bollire nella teiera. Si beve e si parla.
Gli spezzoni di vita che mi vengono raccontati sono anche un piccolo dono. Che sia della corruzione del Burundi, della guerra in Iraq, delle feste siriane, dei matrimoni libanesi, delle gite che si facevano d’inverno qui a Örnsköldsvik quando si era alla scuola superiore e si giocava a baseball sugli sci, di quanto si mangi nei ristoranti tailandesi, di quanto difficile sia trovare un lavoro in Kenya se non si hanno conoscenze, di quanto poco costi il cibo in Turchia, è sempre un dono. E’ un po’ di fiducia che ti è stata data, un pezzetto della loro vita che ora sai anche tu e puoi portare con te.
L’anziana eritrea che non ho mai visto (o forse non me ne ricordo, perché vedo così tante persone diverse) che incontro ad un corso di cucina cinese organizzato dal comune, che parla pochissimo svedese nonostante sia qui da una decina d’anni, che mi passa vicino e mi prende la mano e lastringe contro di sé per salutarmi, quella è un’altra cosa che ti cambia la giornata.
Al corso di cucina abbiamo imparato a fare i dumplings cinesi da una donna cinese che ha costellato la lezione di storie di quando era bambina e per il capodanno cinese tutta la famiglia faceva i dumplings e poi si sedeva assieme per mangiarli mentre i fuochi d’artificio scoppiavano nel cielo.
A volte è difficile. Ma io credo ne valga sempre la pena, ampiamente.

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Report IV – febbraio 2020
Il freddo tardava ad arrivare a gennaio. Ne parlo come se tra i 3 e i -2 gradi non fosse freddo. Di solito a gennaio scende a -20 o -25, ma non si è mai scesi sotto i -3. Tutti si lamentavano. Tutti davano la colpa ai cambiamenti climatici. Poca neve, malcontento generale.
A febbraio l’inverno ha cominciato a presentarsi timidamente. Ha nevicato, poi ha piovuto, le strade si sono ghiacciate, la gente scivola, ci sono -16 gradi, fa freddo. Di nuovo malcontento generale.
Gli svedesi mi ricordano un po’ gli italiani, riguardo al tempo. Entrambi sono campioni nel lamentarsi, qualsiasi siano le condizioni atmosferiche.
Il freddo ha fatto sì che potessimo andare a pattinare sul mare ghiacciato. Una sensazione di libertà bellissima. Il vento era così forte che bastava aprire le braccia e lasciarsi spingere. L’acqua si era congelata creando bei disegni sulla superficie. Ogni tanto si sentiva un crack e vedevo la mia vita sfrecciarmi davanti, ma secondo la collega svedese con cui siamo andati a pattinare il ghiaccio era abbastanza spesso per tenere il nostro peso. Più tardi, a casa sua, abbiamo bevuto glögg, che è il vin brulé svedese, molto più speziato del vin brulé italiano e a cui vengono anche aggiunte mandorle intere e uvette da mangiare con il cucchiaio.
Mi sono accorta come io stia impiegando tutte le lingue che so. A parte il raro italiano con la mia famiglia e i miei amici, utilizzo l’inglese con chi non sa il svedese, lo svedese con chi lo sa, il francese – ad esempio l’altra volontaria che viene dalla Francia, o una donna algerina che ogni tanto vediamo quando lavoriamo – e lo spagnolo con coloro che vengono dal Sudamerica.
Gli språkcafé (caffé delle lingue, dove ci si può allenare a parlare svedese e a stare in compagnia), stanno diventando un enorme scena di traduzione e interpretazione. I partecipanti fissi ora sono una colombiana che non parla altro che spagnolo, un’algerina che parla francese e svedese, un’albanese
che parla anche italiano, più altri che parlano quasi solo svedese, arabo o dari e noi volontari, di cui la francese capisce poco lo svedese e il greco parla un po’ svedese o inglese perché nessun altro sa il greco. Spesso mi trovo a fare da interprete fra spagnolo, francese, italiano, svedese e inglese e alla fine non so neanche come mi chiamo, ma è divertente e mi dà molta soddisfazione poter fare da ponte fra le persone.
Sempre più spesso cerco di mettermi nei panni di queste persone. C’è chi dice che è stato arrestato, chi è scappato dalla criminalità, chi è stato sparato, chi afferma che la libertà per loro è già il fatto di essere qui in Svezia, chi dice che la propria famiglia nel loro paese d’origine non ha luce né acqua per via della guerra. Lo dicono così, come se parlassero di quello che hanno mangiato a pranzo.
Quanto lavoro interiore ci vuole prima che eventi di tale portata vengano digeriti e diventino soltanto un’altra storia da raccontare nella vita di qualcuno? Io non riesco nemmeno a concepire come mi sentirei se fossi nelle loro situazioni o se avessi passato ciò che hanno passato. Penso che ad un certo punto le priorità cambino completamente, che la soglia del dolore emotivo si alzi, o che dei meccanismi di difesa vengano consciamente o inconsciamente messi in pratica. Mi fermo a riflettere su quanta forza l’essere umano debba avere per superare avversità del genere senza impazzire e poi continuare a vivere attraverso altre avversità, e sono stupefatta.
Ho cominciato a lavorare in una struttura dove si danno dei corsi informali di svedese a chi non ha ancora il visto ma vuole comunque imparare la lingua. Faccio da aiuto insegnante una volta alla settimana in una classe dove la maggior parte degli alunni viene da El Salvador. Il modo in cui parlano del loro paese, a loro dire corrotto, pericoloso e molto prone ai terremoti è struggente.
Indipendentemente da quanto la tua casa sia piena di disastri, è sempre la tua casa. La maggior parte di chi incontro dice di voler ritornare a casa un giorno, se sarà loro permesso. E’ una contraddizione, il voler ritornare in un luogo da cui si cerca disperatamente di non ritornare, vista l’angoscia con cui attendono i visti per poter vivere in Svezia. Eppure li capisco.

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Report V – marzo 2020
Ho notato quanto mi stia adattando alle culture degli altri. E’ come se cambiassi registro culturale a seconda delle persone.
I salvadoregni sono sempre in ritardo perché fanno le cose con calma e si fermano a parlare. Quindi ora mi ricordo di essere in ritardo anche io quando c’è lezione con loro, e so che se devo fare qualcosa dopo devo calcolare almeno quindici minuti di chiacchiere post-lezione. Un netto
contrasto con gli svedesi, che invece pretendono precisione sia nell’arrivare che nel partire ad attività finita.
Le donne siriane baciano sulle guance tre volte per salutarsi, e tre (?) baci per lato, guancia contro guancia. In realtà non riesco mai a contarli, ma è una cosa del genere.
Tra le persone arabe (siriani, libanesi, iracheni) non è scortese mangiare con le mani. E’ considerato strano se attendi l’invito del tuo ospite per cominciare a mangiare e se non ti servi il secondo senza chiedere. Lo facevo all’inizio, perché in Italia bisogna aspettare di essere incitati a mangiare, non mangiare prima del padrone o della padrona di casa, chiedere cortesemente di potersi servire di nuovo, ma mi hanno preso in giro dicendomi che sembravo una svedese. Anche se ora non chiedo più mi pare comunque scortese, ma mi ci sto abituando. Mangiano veloci, con avidità, finiscono sempre prima di me.
I thailandesi che conosco fanno spesso battute a sfondo sessuale perché nella loro cultura non è tabù come qui, quindi se uno non lo sa prima di diventare amico dei thailandesi potrebbe considerarli ignoranti o con un pessimo senso dell’umorismo, quando non è così.
Una nostra collega thailandese ci ha invitato a partecipare ad un rituale buddista (la maggior parte dei thailandesi è buddista) con un monaco che vive in un monastero a qualche chilometro da qui.
Abbiamo suscitato scalpore generale perché è raro che degli occidentali partecipino a funzioni del genere, anche se a tutti è permesso di assistere. Tutti si chiedevano chi ci avesse invitato, il monaco si è fermato qualche secondo in più da noi durante la benedizione per aspergerci di acqua più degli altri e ci siamo chiesti come mai abbia pensato che necessitassimo di maggiori benedizioni. Avrà sentito lo stress che pesava su di noi quella settimana? Avrà avuto pietà di noi poveri visitatori che non capivamo una singola parola e ci guardavamo attorno smarriti? Avrà voluto esorcizzare
frustrazioni o ansie che ha visto aleggiare sulle nostre teste? Forse gli eravamo simpatici, invece.
Non lo so. Comunque per buona misura ci ha benedetto con insolita veemenza e a più riprese finché i nostri capelli sono diventati umidi e la volontaria francese non ci vedeva più dagli occhiali.
Mi è piaciuto però, è stato un rituale molto sentito e lui aveva un’aura calma e pacifica. Hanno anche cantato dei mantra mentre un filo rosso passava di mano in mano, unendoci tutti come una catena umana.
C’erano anche offerte sotto forma di cibo. Il cibo più bello e buono possibile, ci è stato detto, perché erano offerte per il rituale e per il monaco che poi l’avrebbe benedetto.
Era anche molto buono. Ho mangiato degli insetti per la prima volta in vita mia. Avevano la consistenza di gommapiuma.
Abbiamo preso cinque giorni di vacanza, io e la volontaria francese, per andare al nord a caccia di aurore boreali (missione fallita miseramente). Non ne abbiamo viste mentre eravamo a Kiruna – una città oltre il circolo polare artico – ma abbiamo fatto altre belle esperienze!
Abbiamo fatto un giro in una slitta trainata da husky e abbiamo visitato il museo sami dove c’erano anche delle renne a cui potevi dare da mangiare. I sami sono il popolo che viveva e ancora vive perlopiù nella zona della Lapponia, all’estremo nord di Norvegia, Svezia e Finlandia. Erano un popolo nomade, si spostavano con i cani e le renne e si nutrivano di renne, pesce e di ciò che la natura gli donava. Erano molto in sintonia con la natura e avevano perfino un loro personale pantheon delle divinità. La loro cultura si è andata un po’ perdendo con l’arrivo dei missionari cristiani che hanno deciso che la loro religione era sbagliata e comparabile a stregoneria. Ma ancora oggigiorno ci sono organizzazioni che tentano di tenere in vita questa bellissima cultura.
Ho cominciato il mio progetto. Sarà un blog che parlerà della mia esperienza qui e soprattutto delle storie degli immigrati (chi ha già il visto o chi non c’è l’ha ancora) che vogliono raccontarmele. Ho già intervistato sei persone. Mi sento estremamente onorata che mi permettano di ascoltare e
raccogliere le loro esperienze. Alcune mi hanno segnato profondamente e mi sono ritrovata ad ammirare la loro forza interiore per aver vissuto attraverso le peripezie che hanno passato.
E’ difficile trovare persone da intervistare perché molti hanno paura di finire su internet. Alcuni sono ricercati, altri semplicemente non si sentono a proprio agio, altri non vogliono rivivere traumi subiti ed è comprensibile. Non forzo nessuno. Ho delle domande di base, ma se non vogliono rispondere a qualcuna basta che lo dicano, come anche se vogliono aggiungere qualcosa. Possono pure scegliere di essere anonimi, o che dei dettagli riconoscibili vengano cambiati.
Non è facile. Molti non capiscono perché lo faccio. Il mio scopo è quello di dare voce a coloro che hanno qualcosa da raccontare. Voglio farlo perché molti con cui ho parlato si lamentano del fatto che c’è razzismo qui, che devono lottare per avere le stesse opportunità degli svedesi, che la gente è
veloce a etichettarli come “mangia tasse” o “criminali” solo perché hanno la pelle scura o gli occhi di forma diversa, ma in realtà non conoscono le loro storie. Non sanno perché sono qui, non li conoscono, non riescono a mettersi nei loro panni e quindi decidono di tenersi a distanza e criticare
e basta. Non va bene, non ci sarà mai integrazione così. Pregiudizi e disprezzo sono le ultime cose che ci servono in un mondo così cosmopolita e multietnico. E’ vero, siamo diversi, ma è questo che ci rende bellissimi, altrimenti sarebbe una noia. Inoltre, non significa che solo perché siamo diversi non possiamo essere uniti. Mi piacerebbe sapere quando, nella storia dell’umanità, le parole diversità e unità hanno smesso di essere associate. Un unità piena di differenze è un’unità più forte e ricca, perché ognuno porta qualcosa di diverso e nuovo e complementare. E poi, se anche ci sono differenze sui nostri gusci, non siamo diversi dentro. Come uno degli uomini che ho intervistato ha detto, “Il nostro sangue e il loro è sempre rosso. Quello non cambia.”. Siamo tutti umani. Non capisco perché ancora ci ostiniamo a contare in cosa siamo diversi e a puntare il dito sulle divergenze invece che a notare quanto siamo simili.